LA TRAPPOLA OVVERO IL DIO SCONOSCIUTO

Facilis descensus Averno: noctes atque dies patet atri ianua Ditis; sed revocare gradum superasque evadere ad auras, hoc opus, hic labor est.

Virgilio

La neve copriva, silenziosa e tenace, l’intera vallata ai piedi del monte Cetona. Pochi pastori spingevano, faticosamente, le loro greggi al riparo dei malsicuri recinti, un riparo dal freddo e dalla fame degli uomini più che dei lupi, da tempo ormai quasi del tutto scomparsi in quelle zone. Lentamente le prime luci della notte si accendevano, in alto, sopra le montagne, distanti, inaccessibili agli uomini come il sorriso degli dèi. Poche e fioche, invece, si accendevano sulla valle miserevoli luci, qualche podere di contadini e qualche villa di signori, come quella appunto del conte Costantino Ortensi che, assiso davanti al fuoco, con in mano una vecchia edizione seicentesca di Tito Livio, stava ascoltando con benevola pazienza un giovane archeologo, inviato da Roma, addirittura dal ministro Gentile, per intraprendere una campagna di scavi nelle sue terre. Ci si riproponeva di scoprire diverse tombe etrusche intatte, colme di tesori e di reperti meravigliosi. L’entusiasmo dell’archeologo era al culmine, non così quello del vecchio conte.

“Avete mai visto una trappola per topi signor Gabrielli?”.  Questo era il nome del giovane archeologo.

“No signor conte, ma questo cosa c’entra con il costrutto del discorso?”

“C’entra, c’entra nella tomba, scusate il gioco di parola e non solo, c’entra ma ci rimane intrappolato. Insomma se io voglio catturare qualsiasi animale di questi boschi, ammettendo che non abbia forza bastante per abbatterlo che cosa dovrei fare, secondo voi?”

“Creare una trappola suppongo!

“Bravo!, vedo che cominciate a capire! Un ragno non avrebbe mai la velocità necessaria per inseguire e catturare una mosca, ma….basta una tela o una trappola ed anche il lento, pesante, ottuso ragno può succhiare il sangue della sua incauta, veloce e stupida preda!” Pronunciando la parola stupida il conte volse gli occhi, di un azzurro scintillante e glaciale,  sorridendo maliziosamente al giovane archeologo che, probabilmente stava scambiando le divagazioni del conte per il delirio di un vecchio pazzo. Pazzo, però, che era il membro più potente e autorevole del partito fascista locale e, con il quale, bisognava giungere a un qualche accordo.

“Continuo a non capire, signor conte, qui non si tratta di andare a caccia di tigri, ma semplicemente esplorare qualche tomba etrusca vecchia di qualche migliaio di anni e del tutto innocua a parte qualche ragnatela e un po’ di muffa. Ammesso che al suo interno ci siano dei ragni, saremo ben lieti d’averne ragione!” E qui il giovane archeologo ricambiò il derisorio sorriso che, poco prima, aveva ricevuto dal conte.

“Lei dice?, vede se si trattasse di tigri, sarebbe affare da poco, ma ci sono esseri e creature che sono anche peggiori delle tigri e che è bene non andare a stuzzicare nelle loro luride tane. So che lei mi giudica un vecchio pazzo, ma io vivo in questa terra da sessanta anni e so ben io quel che dico. Certe cose meglio lasciarle dormire  e, se fosse per me, distruggerei queste orride tombe pagane con il fuoco, una per una. “

“Ecco”, pensò il giovane archeologo, “la sua malattia, delirio religioso oscurantista medievale, quest’uomo deve aver in uggia persino il Leopardi e, sicuramente, non è mai andato oltre il libro delle ore!”[i]

Come se avesse letto il suo pensiero il vecchio conte indicò la sua biblioteca con un dito e disse: “Guardi Leopardi, De Sade,tutti gli illuministi settecenteschi. No, non sono un vecchio baciapile manzoniano come la mi ritiene lei, sebbene ami anche il Manzoni che, poi, non è così diverso dal Leopardi. Ma glielo ripeto io vivo in queste terre da sessanta anni e, quaranta anni fa, ero come lei, giovane,appassionato di misteri finché avvenne qualcosa che mi fece cambiare idea.”

“Cosa se non sono indiscreto?”, rispose un po’ mortificato il giovane archeologo che, resosi conto del suo formidabile errore di giudizio, cominciava a interessarsi alla pazzia del conte, perché tale, nonostante tutto, continuava a giudicarla.

“Le domande non sono mai indiscrete, le risposte, a volte, diceva un barbaro non privo di ingegno, ma lasciamo da parte gli scherzi e veniamo al punto: Dio, nella sua infinita misericordia, ha creato i nostri occhi deboli, i nostri sensi inadeguati, le nostre riflessioni puerili, persino quelle dei più illustri scienziati i quali, come lei, vanno a infilare il naso in posti da cui la divina Provvidenza ci aveva, fino ad oggi, nascosto con misericordia l’entrata. Quanto era preferibile il mondo di Dante, quanto vero, con la Terra al centro dell’Universo, le stelle come fiamelle a decorare questa grossa torta di fango e acqua. No, noi abbiamo voluto sfidare la spada degli arcangeli che ci avevano proibito di mangiare del frutto del bene e del male. Per la nostra stessa salute mentale, badi bene. Pensa forse che il mio antenato Roberto Bellarmino, che mandò al rogo Giordano Bruno e fece ritrattare Galileo fosse un povero vecchio e stupido baciapile? No, era l’uomo più intelligente del suo tempo, più dello stesso Galileo,  pur essendo nato qui vicino, a Montepulciano, borgo di oscura fama a parte il Poliziano, altro pagano maledetto. No Roberto Bellarmino sapeva benissimo che Giordano Bruno, Galileo, Coperinico avevano ragione, ma proprio per questo decise, purtroppo senza successo, che queste orride teorie non fossero diffuse tra la gente semplice. Un contadino coltiverà la terra felice se immaginerà di essere costruito a immagine e somiglianza di Dio, di essere nel centro dell’Universo e che, dopo morto, se ne andrà in un paradiso fatto di liquori e belle donne. Ah la infinita saggezza degli arabi. No, noi gli abbiamo detto che è poco più di una scimmia, che la Terra è un granello di sabbia nell’Universo e che dopo morto andrà a concimare le messi. Cosa volevate che saltasse fuori da questa roba? La fucilazione e il massacro del nostro piccolo padre (ho origini russe da parte di madre), una ideologia insana e nefasta e financo voi, voi sì con le vostre camicie nere che fate da pendant a quegli altri con le camicie rosse, bella gente. Lo ridica pure al sor Benito, io per citare una frase di D’Annunzio che voi avete copiata: me ne frego!”

“Sì ma ancora non capisco”, aggiunse il giovane archeologo, “cosa c’entri tutto questo con quattro tombe etrusche e con qualche vaso greco che vorremmo scavare ed esporre al museo archeologico di Firenze!”

“Non capisce e ringrazi Iddio di non capire, ma se scenderà in quelle dannate trappole”, il conte usò proprio questa strana parola “capirà anche troppo, mi creda! Guardi, chiamo Gosto, uno dei miei contadini e lui le spiegherà, muto, la cosa in se stessa molto meglio di mille parole! Gosto!”, chiamò con voce ferma e stentorea il vecchio conte, “Gosto!”.

Lentamente, da una porta laterale apparve una strana forma che, probabilmente, un tempo doveva essere stata umana: era un contadino di quelle zone, ma i vestiti erano ridotti in condizioni pietose, l’uomo era semiscalzo, le unghie nere e lunghe come artigli, la capigliatura completamente bianca e simile a quella di un animale selvaggio. Ma la cosa che colpiva di più era lo sguardo assolutamente vuoto, privo di anima, di sentimenti, come se fosse un guscio svuotato, ormai privo di qualsiasi relazione con la specie umana.

“Lo vede? Questa cosa che vede davanti a lei, priva di anima, di coscienza fino a un anno fa era il contadino più intelligente e affidabile delle mie terre. Era anche ambizioso e, come lei, sapeva che in certi luoghi si nascondono incredibili tesori pronti a cadere nelle mani di chi non si fa suggestionare da sciocche leggende di diavoli, streghe e altre amenità varie. Gosto era, diciamo, un libero pensatore contadino, forse anche comunista, forse non credeva neanche in Dio ed ora, purtroppo per lui, nel diavolo deve crederci per forza.”

“Ma cosa gli è successo dunque?”

“Tutto partì da un sogno, quelle orride sanguisughe comunicano così con i mortali, che Dio li sprofondi nell’inferno che le ha generate! Gosto, diminuitivo di Augusto sognò, una notte, una tomba piena di oro, argento, vasi greci, intatta. Sognò il cumulo esatto dove si trovava, sognò immensi tesori…sognò la sua morte anche se in quel momento credeva di sognare la sua ricchezza. Nel sogno vedeva se stesso a Siena o a Firenze, in un negozio ben avviato, e tutto questo se lo sarebbe comprato con l’oro degli Etruschi. Gosto non sapeva cosa fossero gli Etruschi ma sapeva bene cosa era l’oro, sapeva a chi vendere quei vasi. L’avrebbero certamente truffato, ma sapeva altrettanto bene che ne avrebbe guadagnato quanto bastava per trasferirsi in città e diventare un signore. La storia dei Malavoglia in chiave gotica.”

Gosto intanto rideva in maniera ebete e sconclusionata, probabilmente neanche si era accorto che il conte stava narrando al giovane archeologo la sua storia.

“Ed ora eccolo qui e gli è andata pure bene, perché Gosto era abbastanza forte e svelto da fuggire da quella tana di ragno, ma il cervello ahimè è rimasto ancora lì.”

“Ho capito signor conte, avrà visto qualche pittura, qualche statua un po’ particolare e, nel buio, l’avrà scambiata per il diavolo o chi sa per cosa. Ma io sono un archeologo laureato all’Università di Roma, ho eseuito scavi a Tarquinia, Vulci, Cere, ho visto dipinti di Charun, Tuchulca e le assicuro che è tutta roba che non fa male a nessuno.”

“In linea di massima ha ragione”, disse il vecchio conte, “ma questa è una zona particolare, è il territorio del re maledetto, di Porsenna, senza contare quei tumuli di quei maledetti adoratori del diavolo longobardi, miei antenati tra l’altro. Anche Gosto sapeva riconoscere una pittura da un diavolo vero, proprio per questo è impazzito! Quel che vide lo vide davvero e quegli artigli senza vita li sentì davvero nella sua carne. Loro sono così, orridi vampiri che si nutrono di carne umana!”

Il giovane archeologo stava per scoppiare a ridere, pensando che davvero il conte aveva scambiato qualche mummia rinsecchita, ammesso che esistessero mummie etrusche per un vampiro della letteratura gotica inglese. Ma, ripetiamolo, aveva bisogno dei contadini del conte, aveva bisogno dell’autorizzazione per scavare nelle sue terre e dovette fare sforzi sovrumani per continuare nella forma più cortese possibile quella bizzarra conversazione.

“Vede signor conte, ora anche io ho letto qualche libro di vampiri de Settecento o qualche racconto del Byron o del Nodier, ma le assicuro che sono tutte fisime di preti rimbecilliti. Poi da quel che ne so è roba slava, non italica. La nostra sana razza ariana rifugge da queste assurdità!”

“Ah lei dice gli upyr che voi, scusate dico voi solo perché sono mezzo russo, avete latinizzato in vampiri. Lei pensa che siano non morti stile slavo, tipo quelli descritti dal principe Tolstoj cugino di quell’altro ancor più famoso Lev. Se le cose stessero così avremmo ancora un orrore umano, per così dire, ma qui le cose vanno ben oltre. Quegli esseri abominevoli hanno stretto patti con creature al cui confronto il vostro diavolo cristiano è un birbante di mezza tacca. No, l’orrore sigillato in quelle tombe è senza nome. In ogni caso, visto che lei viene con ordini da Roma, visto che la sacra fames auri la acceca come ha accecato, un tempo, il povero Gosto, le darò il permesso di scavare nelle mie terre e che Dio abbia pietà di lei. Io il mio dovere di buon cristiano, anche se non lo sono più da tempo, da una notte fatale di tanti anni fa in una di quelle maledette tane, l’ho fatto. Buona fortuna! Mi dica di cosa ha bisogno: un’unica cosa, non metterò a rischio la vita dei miei contadini, gli operai se li porti da Roma, così avremo una sorta di rievocazione storica: Romani contro Etruschi.”

“Sta bene,signor conte, mi basta questo, il suo permesso di esplorare le sue terre, dove so quasi per certo che si nasconde una ricca necropoli. Del resto mi occorre gente esperta, dei semplici e rozzi contadini potrebbero rovinare importanti reperti archeologici. La mia squadra sarà composta quasi interamente da studenti universitari che approfitteranno di questa importante campagna per farsi le ossa per la loro futura carriera accademica.”

“Che Dio abbia pietà delle vostre anime,” rispose il conte e fu così che quella notte si congedarono quei due uomini, apparantemente tanto dissimili, ma in fondo con molte più cose in comune di quanto loro stessi avrebbero voluto ammettere. Il vecchio conte rivedeva, nel giovane archeologo un se stesso di molti anni più giovane, innamorato ancora della sua bella moglie e appassionato fino al fanatismo dell’archeologia e della Storia antica. Il giovane Gabrielli, invece, notava in quel vecchio pazzo semi di una erudizione vastissima, forse un po’ sconclusionata come quella di molti autodidatti di quei tempi, ma degna di miglior scopo che quegli strani deliri su morti viventi e vampiri.

2

Improvvisamente, come suscitato dagli allegri passerotti nascosti nelle fronde un raggio di sole, come una lama tagliente ed affilata si fece strada per le fitte foreste del monte Cetona, colpendo con mira precisa e implacabile la vecchia villa settecentesca del conte Ortensi. In giardino si stavano ammassando archeologi, operai, e tutta una selva di mani e di braccia che, presto, così pensava il conte, sarebbe finita nelle fauci dell’orrido mangiatore di cadaveri etrusco, metà avvoltoio e metà asino, Tuchulca. Ma cosa poteva farci, quegli esseri dopo tanti millenni conservavano una tale vitalità, così pensava, da far invidia ai diavoli di Malebolge di dantesca memoria. Intanto il giovane archeologo, consultava certe sue mappe militari, certi appunti presi su un quaderno nero, come la notte, con impressa ad oro, selvaggiamente, un’aquila fascista. Gabrielli con Bandinelli, certamente, era l’archeologo senese più promettente di quegli anni, aveva intuito, gusto, finezza e quella sana dose d’incoscienza necessaria a qualsiasi buon archeologo. Tutte buone qualità, pensava il conte Ortensi, ma qui destinate a portarlo a una sventura certa ed inevitabile, come in una tragedia di Eschilo. Quel popolo a cui tanto si appassionava, infatti, aveva sconfitto la morte, ma in una maniera così diabolica e contronatura da dover applicare a loro, quella celebre sentenza di catoniana memoria, soltanto un poco rivisitata: Etruria delenda est!

Come avviene, comunque, in tutte le cose, il tempo fece la sua marcia inarrestabile verso il finale tragico che qualche autore folle o pazzo, come il longobardo Rachismundo Diacono, autore della orribile opera De necromantica infernale, forse letta dallo stesso Dante, in qualche codice proibito, perché dannato all’oblio dalla Santa Inquisizione, aveva vergato in qualche pergamena maledetta. Il conte possedeva una rarissima copia di quell’opera, il cui autore era vissuto a Chiusi ai tempi del gastaldo longobardo e del florido splendore della Abbazia del santissimo Salvatore, arroccata su sul monte Amiata. Opera maledetta che faceva, certamente, riferimento alla traduzione latina di un testo etrusco compilata nel II sec d. C. da Apuleio De prodigibus demonun inferum, opera solo apparentemente neoplatonica, ma con chiare ascendenze etrusche e cartaginesi. Vi si faceva riferimento ad orridi culti e strani sacrifici che solo di sfuggita il poeta Lucano aveva descritto nella sua Farsalia. Ma sicuramente, così pensava il conte, Rachismundo doveva aver avuto accesso ad altre fonti dirette, che al tempo della dominazione longobarda, forse, avevano conservato lontani collegamenti con la casta sacerdotale pagana che, un tempo, aveva dominato quella regione. Quest’opera, in ogni caso, aveva salvato la vita al conte, tanti anni fa, grazie alla scienza dei sigilli in grado, appunto, di sigillare i tunnel o le porte che collegano questo mondo all’altra dimensione che, sarebbe stato augurabile definirla inferno, ma da quel poco che conosceva il conte di Fisica e Astronomia, era qualcosa ancora di più spaventoso dello stesso inferno dantesco. Il conte avrebbe anche voluto comunicare questi timori al giovane archeologo ma, ben si rendeva conto, che lo avrebbe preso per pazzo. Non vi era altra soluzione che seguire il corso del fiume del tempo e aspettare, se l’occasione si fosse presentata, di agire al momento giusto contro quelle orride creature. Già perché il popolo che aveva sconfitto la morte, così pensava il conte, doveva essere già pronto alla prima mossa contro quei poveri deficienti, inorgogliti da una cultura da quattro soldi. Pensavano davvero che conoscere un po’ di Storia romana o greca, popoli vissuti praticamente l’altro ieri, rispetto alle età geologiche della Terra gli aprisse chi sa quale mare di conoscenze. Gli stessi Etruschi erano un popolo alquanto recente, soltanto che avevano conservato, come gli Egizi, i Babilonesi o gli antichi Cinesi, vie di collegamento con l’altro. E al pensiero di altro, alio nel latino rozzo e medievale di Rachismundo gli tremarono le vene e i polsi e la morte e l’oblio parvero al conte la condizione più invidiabile e desiderabile da parte di qualsiasi essere umano.

“Come tutti sanno”, arringava il giovane Gabrielli ai suoi aiutanti in cima a un poggio della tenuta Ortensi, “non si è preservato nessun documento scritto di un certo valore dell’antica sapienza etrusca. I romani hanno, sistematicamente, diciamo, cancellato tutto quel che riguardava quel popolo che, vale la pena ricordare, fu artefice dellla stessa nascita di Roma. La domanda è: perché? Il mio illustre collega Friederich Fost, dell’Università di Berlino che vedete qui accanto a me”, e qui indicò un giovane biondo dall’aspetto malaticcio e con due pesanti lenti di vetro che offuscavano lo sguardo crudele e intelligente,  “crede che in qualche modo la civiltà etrusca sia stata in rapporti molto stretti, lo dice Platone nel Timeo e nel Crizia, con l’antica e perduta civiltà di Atlantide. Sì lo so che, ufficialmente, non è mai esistita una civiltà atlantidea ma ufficiosamente ne siamo quasi sicuri.  Come siamo quasi sicuri che possedessero segreti tali che potrebbero trasformare anche questo modesto paese di contadini e zappatori, che è oggi l’Italia, in una potenza mondiale, assieme, naturalmente, al suo alleato tedesco! Se solo riuscissimo a mettere le mani su qualche documento intatto di quella civiltà, scritto ovviamente, non solo potremmo far fare numerosi passi all’archeologia italiaca ma, forse, rivoluzioneremo tutta la storia del nostro passato e, di conseguenza, del nostro futuro.  Sappiamo che gli antichi dicevano che gli etruschi possedevano una certa scienza di dominare i fulmini e che, quando le truppe barbariche di Alarico stavano già per conquistare Roma, alcuni auruspici etruschi si offrirono di allontanare le truppe barbariche con scariche di fulmini. Il mio illustre collega, il dottor Fost, ritiene che questa storia dei fulmini nasconda qualche misteriosa arma di origine atlantidea e, ovviamente, le nostre nazioni sono interessate a mettere le mani su questo ordigno, ammesso che esista. Per questo, in fondo, siamo grati al conte Ortensi che, nella sua follia persecutoria di antiche maledizioni, non abbia voluto mettere a nostra disposizione i suoi contadini. Questa faccenda deve essere sbrigata soltanto da persone fedeli al partito fascista e nazista. Che gli dèi dell’antica Roma imperiale ci siano dunque propizi in questa avventura. Forse oggi stiamo per riscrivere non solo la storia dell’anticha Italia, ma di tutta l’umanità, sia nel passato, ma soprattutto nel futuro!”

Il barone von Fost, dal canto suo, non aggiunse niente, semplicemente si limitò a pensare a quanto fossero inutilmente chiacchieroni questi suoi stupidi alleati italiani. Ma ne aveva bisogno e come aveva sempre pensato: i mezzi, anche quelli più indadeguati, a volte, possono servire a fini grandiosi e imperituri, quale la rinascita di un nuovo impero, non più romano, ma germanico e che avesse potuto sfidare nei millenni tutti gli altri imperi mai apparsi, fino ad all’ora, sul Mediterrane, da quello di Alessandro a quello di Cesare. Il suo sogghigno aveva qualcosa di glaciale e sinistro, degno delle strane leggende raccontate poche ore prima dal conte Ortensi al giovane archeologo senese. Nel suo zaino, frattanto, brillava a lettere d’oro una edizione rilegata in pelle del Faust di Goethe, sua lettura preferita nelle ore di riposo dagli scavi e dalle innumerevoli altre fatiche archeologiche.

Ci vollero diversi giorni per individuare una tomba intatta, la maggior parte, infatti, erano già state saccheggiate e devastate in tempi ormai remoti. Nel Medioevo, molte di esse, erano state addirittura trasformate in cantine o rifugi di briganti. I ricchi tesori facevano gola, oggi come ieri, ai poveri contadini della zona, eppure, eppure c’era una zona che anche il più audace tombarolo di Chiusi e Cetona si rifiutava di esplorare. Lì viveva, così dicevano loro, il diavolo: quel posto era chiamato, appunto, Poggio Inferno, nome ingenuo ma sicuramente evocativo. Nella zona persino i contadini più poveri si rifiutavano di pascolare le loro misere greggi, figuriamoci costruirci case, alloggi o quant’altro. Quella zona fu proprio per questi motivi scelta da Gabrielli e Von Fost per le prime ricerche. Di solito dietro alla più fantasiosa leggenda si nasconde sempre qualche fondo di verità, diceva appunto Von Fost e la stessa leggenda del Faust, qualche cosa di vero deve averlo avuto all’inizio per rimanere così fortemente impressa nel subconscio della nazione tedesca.

Ore, giorni, minuti, nulla aveva senso per quel gruppo di forsennati che tentavano, a loro rischio e pericolo di forzare le porte del passato, vale a dire le porte stesse dell’Inferno. Facile, dice il poeta è scendere all’Inferno, il difficile è risalire, come riassunse, poi, in molti canti il famoso poeta fiorentino. La loro illusione, pari a quella di tutti gli uomini di questo mondo era che il passato dovesse essere stato, in qualche modo migliore del presente. Illusione altrettanto fallace di coloro che credono che il presente e il futuro siano o saranno migliori del passato.  Il passato è solo un presente congelato nell’eternità, il futuro un presente, invece, sul punto di nascere, tutto è presente. Ovunque in qualsiasi epoca storica troverete santi o criminali, asceti o crapuloni, cambiano i nomi delle maschere, ma mai le maschere. Il fascino degli Etruschi consisteva soltanto in questo, che erano uomini e popoli, appartenenti a un lontano passato, tutti i loro crimini, come le loro glorie erano sepolti in quei pochi metri di terra. Valeva davvero la pena disseppellirli?

Per Von Fost e Gabrielli ovviamente sì.

3

Lentamente la porta di pietra iniziò a cedere, lentamente questi bizzarri esploratori del proibito si facevano strada in un universo dimenticato da millenni. Per secoli e secoli sopra questa camera del tempo si erano alternati re, imperatori, repubbliche, lingue e usanze sempre nuove. Ma lì, all’interno di quella camera tutto era fermo al Terzo secolo avanti Cristo, poco prima delle guerre puniche. Guerre puniche, sì,certo, ma qualcosa, in quella tomba non tornava fin da subito. Cos’era quella strana sfinge messa a guardia del cunicolo poco dopo l’ingresso. La sfinge, in sé per sé non era poi tanto strana, ma non si trattava della solita sfinge greco-romana; l’aspetto e la forma rimandavano, indubbiamente ai colossali mostri di pietra della terra dei due fiumi.Un gigantesco corpo di toro, ali di aquila, coda di leone e una testa che certamente era più assira o sumera che etrusca. “Certo”, ipotizzò Von Fost, “qualche appassionato etrusco di Chiusi deve averla fatta trasportare dalla Mesopotamia fino a lì, ma perché?”

“L’arte mesopotamica, nel III sec. a.C.”, continuò Gabrielli, “se anche non del tutto sconosciuta in Occidente non era certo famosa o degna di collezionismo, senza contare che, per trasportare quel gigantesco mostro di alabastro, dovevano essere occorsi mesi, forse almeno un anno, lasciando perdere l’immensa spesa. Questo forse potrebbe confermare l’origine assira o perlomeno mesopotamica degli etruschi, però!” concluse Gabrielli, come a voler trovare un qualche elemento rassicurante del mondo accademico in quel coacervo di assurdità che era quella tomba.

Le sorprese, però, non erano certo finite lì, superato l’immenso toro alato con testa umana, assiro o babilonese che fosse, i due archeologi furono immessi in un corridoio con pitture assai più inquietanti del vecchio angelo biblico mesopotamico. Queste pitture, infatti, non avevano alcun carattere etrusco, anzi a guardarle bene avevano tratti e caratteristiche delle popolazioni Maya che, rispetto alle Guerre puniche, dovevano entrare in contatto con le popolazioni europee soltanto nel XVI sec. d. C.  Decine di figure inginocchiae, con tratti asiatici e che nulla avevano a che vedere con gli Etruschi di quel periodo, adoravano agitando in maniera scomposta mani e braccia un’assurda divinità, fino a quel momento del tutto sconosciuta agli etruscologi. Ma il problema non era tanto questo, il problema era l’aspetto insolitamente malvagio e minaccioso di quella inconcepibile mostruosità che, ovviamente, per quelli popolazioni doveva essere un dio così terribile e potente da essere placato con innumerevoli sacrifici umani. Già, perché ai suoi piedi giacevano, squartati, decine di fanciulli e fanciulle, notate bene, dai tratti europei e non indiani, come i sacrificanti. Ma, ripeto, non era neanche questo, in fondo, l’aspetto più atroce della cosa. La cosa in se stessa era un autentico concentrato di mostruosità e atrocità. Dico la cosa, perché dare un qualsiasi nome a quel groviglio di tentacoli e occhi, simili a un immenso polpo e calamaro che fungeva da testa per quell’abominio era pressoché impossibile. Un corpo vagamente umanoide faceva sì da supporto a quell’orrore senza nome, ma dico che faceva proprio da supporto, come se lo stesso pittore avesse dovuto, per mantenere intatta la sua salute mentale, almeno in qualche parte di quella cosa, tornare a forme e proporzioni un poco più consuete in questo pianeta. Perché quella creatura emanava,seppur dipinta, un orrore e una terrificante assenza di emozioni e sentimenti terrestri, che la qualificava, nella maniera più assoluta e incontrovertibile come aliena e provenienti dagli abissi senza nome che circondano minacciosi il nostro piccolo e insignificante sistema solare.

Il senso di oppressione, soffocamento, claustrofobia aumentava più ci si addentrava in quel lunghissimo cunicolo. Non era tanto il difficile ricambio d’aria, certo persino l’aria fresca della campagna toscana sembrava rifiutarsi di entrare in quello sconosciuto labirinto ancestrale, archetipico, dove sembravano racchiusi tutti i terrori della nascente umanità; no era qualcosa di malvagio e antico che trasudava dalle stesse pareti, qualcosa di appiccicoso e viscido che si incollava alle suole delle scarpe, ai vestiti. Ma soprattutto quell’odore, di putrefazione viva, non avrei altre parole per descriverla che impregnava ogni oggetto, ogni suppellettile di quell’orripilante tomba.

Era come avanzare nel ventre di una gigantesca balena, era come spofondare in un abisso senza fine, era come, per dirla in parole povere, morire.

“Gli incubi del demoliconicon sono niente a confronto con questo abominio di pietra e roccia dipinta!”, sussurrò con un filo di voce Von Forst.

“Demo…cosa?”, rispose con una voce altrettanto fievole Gabrielli.

“Ah già, voi siete italiano e non avete idea di cosa parlo. Il Demoliconicon è uno dei libri scritti, pare, dal dottor George Faust che, agli inizi del Cinquecento, così racconta la leggenda, vendette la propria anima al diavolo o…chi per lui.” L’ultima frase era alquanto ambigua, ma tale ambiguità non fu del tutto colta da Gabrielli.

“Noi sospettiamo che dietro la leggenda del dottor Faust che, tra parentesi, pare fosse un mio antenato, il nome Fost non è altro che una deformazione fonetica operata dai miei avi per non incorrere nelle persecuzioni dei luterani, dico pare che dietro la leggenda del dottor Faust pare si celi la riesumazione di antichi riti vichinghi o germanici, l’evocazione, alquanto pericolosa di “presunte divinità” in grado di concedere, in cambio di alcuni favori di dubbia moralità, oro, ricchezze e potere senza limiti! La leggenda che poi arriva a Marlowe e Goethe, non è altro che la deformazione cristiana di queste leggende pagane!”

Finalmente i due archeologi arrivarono alla sala centrale, dove sotto una decina di sarcofagi erano deposti i resti mortali della gens Velichnia, la più potente famiglia della regione ai tempi del lucumone Porsenna. I volti, dipinti, su terracotta, li scrutavano con un’espressione soddisfatta e maligna, come quella di una decina di ragni che abbiano, finalmente, veduto cadere delle mosche all’interno della loro tela. I volti erano vecchi e giovanissimi, volti di bambini e volti di uomini e donne cadenti, ma tutti, senza alcuna eccezione portavano il marchio della malvagità impresso sulla loro fronte. Una malvagità estremamente antica, immortale, che né  i secoli, né la morte potevano in alcun modo attenuare, una malvagità antica quanto il mondo, nata con lo stesso dio o dèi che avevano instillato il primo soffio di vita su questo miserabile pianeta.

Mentre, presi da una sorta di vertigine temporale, stavano accuratamente esaminando quei sarcofagi accadde qualcosa che, nella sua semplice innocenza e banalità, fuori di lì, non avrebbe destato alcun stupore o maraviglia, ma che lì, proprio in quel luogo e in quella situazione assumeva un carattere talmente innaturale e inusitato da gelare il sangue nelle vene al più feroce brigante toscano o maremmano. Ripeto non era tanto la cosa in sé a destare orrore, l’orrore nasceva dal fatto che quel suono e quella voce, altrove assolutamente innocente, risuonava tra quelle volte ammuffite e diaboliche: la voce di un bambino, dolce e delicata, cantava, chi sa dove, da dietro quelle urne maligne una strana cantilena che pur sconosciuta nelle parole e nei suoni, evocava immagini e sensazioni di tristezza indicibile.

Tages tarchum visla nesle

Melchart Voltumn Tuchulcas

Charun avul masarce!

Questi, su per giù, i suoni che risuonavono in quelle antiche volte di tufo e di pietra. La voce, in verità, non sembrava venire da un punto preciso della tomba, da dietro un sarcofago o dietro una statua; a volte nasceva da una cavità, a volte da un punto oscuro della prospettiva a volte della tomba. Sembrava, quasi, che fosse la voce stessa della tomba, come se la tomba fosse una persona, come se la tomba fosse una sorta di essere vivente che aveva finalmente trovato il suo cibo. Lentamente, inesorabilmente, la luce in fondo alla tomba, quella che proveniva dall’ingresso cominciò ad attenuarsi, come se la stessa entrata, come una gigantesca bocca si richiudesse sulle povere vittime, la voce del bambino, nel frattempo, diventava sempre più stridula e feroce, ora assomigliava a quella di un vecchio malvagio. La stessa tomba sembrava inclinarsi verso il basso, tutti venivano attratti verso le viscere, mai termine fu più esatto, della stessa tomba. Urla, grida, preghiere, tutto si perdeva in un silenzio innaturale e antico. La tomba stava semplicemente divorando i suoi visitatori.

4

Il conte Ortensi aspettò invano, il giorno dopo il ritorno dei suoi ospiti, sembravano come inghiottiti nella campagna senese. Chiamato quindi un prete dal più vicino villaggio fece semplicemente benedire la campagna dove erano stati inghiottiti gli sventurati visitatori e bofonchiando qualcosa di incomprensibile se ne tornò a casa in compagnia del vecchio parrocco don Martino il quale, riuscì a capire solo queste strane e bizzarre parole, frutto ovviamente della bizzarra fantasia del conte: “speriamo che quei diavoli dopo un pasto così ricco, per un po’ se ne stiano tranquilli nelle viscere del loro inferno!”


[i] Libro di preghiera medievale.

Pubblicato da blogventuriniscuola

di professione essere umano nel tempo libero insegnante.

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